Le anime (poco) arabe del Salone del Libro di Torino 2016

C’è una bellissima riflessione che Mahmud Darwish ha fatto sulla sua identità araba: per il poeta dei palestinesi e degli arabi, la sua patria era la sua lingua, l’arabo. 

“Sono arabo, perché parlo arabo. […] Sono arabo, e la mia lingua ha conosciuto la sua fioritura più rigogliosa quando era aperta sugli altri, sull’umanità intera. Tra gli elementi del suo sviluppo vi è il pluralismo. Leggo così i secoli d’oro della cultura araba. In nessun periodo della Storia siamo stati totalmente ripiegati su noi stessi, come alcuni vorrebbero vederci oggi. Nella mia identità non ci sono ghetti. Il mio problema consiste in ciò che l’Altro ha deciso di vedere in essa. Perciò gli dico: Ecco la mia identità, dividila con me, è sufficientemente ampia da accoglierti; e noi, gli arabi, non abbiamo avuto vera civiltà se non quando siamo usciti dalle nostre tende per aprirci al molteplice e al diverso. […] Io sono arabo, perché l’arabo è la mia lingua e, nel dibattito attuale, conduco una difesa strenua della lingua araba, non per salvaguardare la mia identità, ma per la mia esistenza, la mia poesia, il mio diritto di cantare”.

(Tratto da Oltre l’ultimo cielo. La Palestina come metafora, epoché 2007)

In arabo parlava, in arabo scriveva, Mahmud Darwish. La sua patria – lui palestinese, esule nella sua terra, che aveva vissuto e viaggiato in altri paesi arabi ed europei – era la sua lingua. Araba la lingua, araba l’identità. Araba la lingua che gli ha permesso di venire tradotto in decine di lingue, nonostante la lingua fosse proprio quell’arabo, quella lingua, che oggi è quasi sotto accusa, perché è anche la lingua in cui fu redatto il Corano, il testo sacro dei musulmani, oggi spauracchio di molti.

Ma araba è anche la lingua in cui sono state scritte le poesie preislamiche, l’eredità culturale e letteraria di tutti gli arabi, il canone per eccellenza.

L’arabo è oggi la lingua in cui si esprime la maggior parte degli scrittori di lingua araba: quelli che vivono ancora nei paesi di lingua araba, e alcuni di quelli che vivono nella diaspora. E’ una lingua comune, patrimonio della storia culturale degli arabi, ma è soprattutto la lingua con cui gli scrittori arabi si rivolgono al proprio pubblico di lettori arabofoni. Non l’inglese o il francese, ma l’arabo: la lingua madre, la lingua della storia e della cultura araba, la lingua per cui non c’è bisogno di intermediazione culturale, che non si porta dietro alcuna contaminazione coloniale. L’arabo non ha in sé i germi di una cultura altra, non reca con sé alcuna distanza, nè i compromessi della storia.

Avendo a mente la riflessione di Darwish, mi viene da dire che c’è poco arabo in questo focus sulle letteratura arabe del salone di Torino, curato da Paola Caridi e Lucia Sorbera, che era nato con l’idea di far conoscere la letteratura araba al pubblico italiano.

Tanto per cominciare, il programma del focus “Anime arabe”, pubblicato ieri sul sito del Salone, è un bel mix di tanti argomenti che come al solito si mischiano quando di parla di mondo arabo: c’è il panel sulla Siria, con la presentazione del nuovo libro sull’esilio di Shady Hamadi (scrittore italo-siriano); due panel sui musulmani (non so se vale la pena ricordare che lo Stato di religione musulmana più numeroso è l’Indonesia, che non è un paese arabo); uno su Kobane, con l’italiano Karim Franceschi, unico combattente italiano a lottare contro l’ISIS (spiegatemela questa vicenda perché mi sfugge il senso); uno sulla matematica araba e uno politico sui mukhtafun, i desaparecidos d’Egitto.

Poi ci sono gli incontri letterari, in genere organizzati secondo il modulo: scrittore “arabo” + giornalista/accademico italiano esperto di questioni arabe/arabo-islamiche.

Da una parte abbiamo i francofoni: Boualem Sansal (algerino); Tahar Ben Jelloun (marocchino che vive in Francia); Leila Slimani (marocchina, vive in Francia); Mahi Binebine (marocchino, vive in Marocco); Yasmina Khadra (algerino, vive in Francia); Karim Miské (franco-mauritano, vive in Francia); e gli anglofoni: Saleem Haddad (di discendenza irachena, tedesca, libanese e palestinese, vive in Inghilterra); Ahdaf Soueif (egiziana, vive tra Londra e il Cairo).

Dall’altra abbiamo gli arabofoni: Adonis (siro-libanese, vive in Francia: al Salone presenta il suo ultimo saggio Islam e violenza, scritto in francese); May Telmissany (egiziana, vive in Canada); Sinan Antoon (iracheno-statunitense, vive negli USA), Muhammad Aladdin (egiziano, vive al Cairo).

La preponderanza di autori che si esprimono in francese e inglese sui loro colleghi arabofoni è abbastanza evidente. Vi risparmio la pappardella su quanto:

a) la lingua non sia mai uno strumento neutrale (se uno scrive in arabo si rivolge in primis agli arabi, se si esprime in inglese/francese si rivolge prima a francesi, inglesi o francofoni e anglofoni: la capite la differenza?) e su quanto:

b) ancora i grandi editori italiani puntino spassionatamente sugli autori arabi francofoni e anglofoni per una serie di motivi che vanno da: li capiscono meglio perché gli editori spesso parlano inglese e francese; ci sono pochi consulenti dall’arabo nelle case editrici; ci sono spesso preconcetti sull’arabo come lingua, che sono duri a morire.

Tutti, ad eccezione di Telmissany e Antoon, sono al Salone per presentare i loro libri (saggi/romanzi), da pochissimo tradotti in italiano e pubblicati da editori italiani. Ed ecco anche perché il programma di “Anime arabe” sembra essere stato composto da due anime, due cervelli: da una parte si ricerca il sensazionalismo, con la presenza di autori appena pubblicati che hanno scritto di temi scottanti come il sesso e l’Islam, e soprattutto di sesso nell’Islam. Direi che un picco inarrivabile si tocca con l’incontro sull’Islam tra Adonis, autore appunto del recente Violenza e Islam, e Maurizio Molinari, direttore de La Stampa, notoriamente islamofobo, oltre che un riconosciuto plagiatore. Si prevedono scintille (di orrore).

Dall’altra ci sono i pochi panel più di “sostanza” (sebbene esageratamente incentrati sull’Egitto): quelli che vedono protagonisti May Telmissany, Sinan Antoon e Ahdaf Soueif, dedicati alla letteratura araba delle prigioni, alle dediche a Fatima Mernissi, Assia Djebbar, Mahmud Darwish e Nizar Qabbani, alle riflessioni sul rapporto tra letteratura e potere nei paesi arabi. Tuttavia, l’unico romanzo di un arabofono ad essere presentato è Cani sciolti, di Muhammad Aladdin (Il Sirente 2015, trad. di B. Benini), che non è affatto un bel libro.

Mi sembra evidente il prepotente zampino degli editori italiani nell’aver orientato le scelte del focus arabo: gli autori francofoni spadroneggiano e sono ingombranti. Rappresentano un peso che sicuramente ha condizionato lo spazio di manovra delle due curatrici, cosa che si evince anche dal fatto che i due unici autori di spessore (non decisi dagli editori), May Telmissany e Sinan Antoon, sono stati impiegati in più panel. Ahdaf Soueif, altra intellettuale di peso, è addirittura impegnata in tre incontri.

Tra l’altro, vale la pena sottolineare che nel comunicato stampa ufficiale del Salone si citano tutti i libri pubblicati dagli autori ospiti, tranne quelli di Telmissany e Antoon, autori di due romanzi arabi di rilievo nel panorama letterario contemporaneo di lingua araba, entrambi tradotti in italiano da Ramona Ciucani: Dunyazad (ev casaeditrice) e Rapsodia irachena (Feltrinelli). Lapsus o scarsa conoscenza?

Inoltre, non c’è una effettiva rappresentanza geografica della letteratura araba in questo focus: c’è una stragrande maggioranza di marocchini, algerini e soprattutto di egiziani. Già, c’è un sacco di Egitto in questo focus (ci sono anche due fumettisti egiziani, impiegati al di fuori di Anime arabe), e questo credo sia dovuto al background professionale delle due curatrici. Mancano gli autori libanesi e i palestinesi, che la fanno da padrone in quanto a romanzi tradotti in italiano. Bei romanzi, mi permetto di sottolineare.

Non so quanto il programma venuto fuori dal compromesso tra gli organizzatori del Salone, gli editori, l’assenza di grandi sponsor e le due curatrici soddisfi queste ultime.

Per quanto mi riguarda, è alquanto una delusione, e a farne le spese sono proprio gli scrittori e la letteratura araba.

11 commenti

  1. ciao Chiara, non mi stupisce quello che dici dato che le due “curatrici” non si occupano di letteratura araba… al solito le cose in Italia vanno come devono andare…
    Inoltre il Salone del Libro di Torino non è una vera fiera del libro (a differenza di quella di Bologna) sul genere di Francoforte, ma solo una grande vetrina per gli editori italiani che cercano più che altro di vendere i loro libri…
    Quanto agli ospiti: Adonis grandissimo poeta, viene invitato per presentare quel libro bruttino ma che avrà venduto assai… e gli altri, maggioranza egiziani, eh be’ l’Egitto tira in questo momento, purtroppo.Diciamo che l’editoria segue l’onda della cronaca anziché essere propositiva. Nulla di nuovo sotto il cielo, ahimè!
    E ancora, invitare scrittori dalla Francia o dall’Occidente in genere è più facile e costa meno :-)

    • nulla di nuovo, ma da un’occasione che veniva presentata come “immancabile” e come un qualcosa di cui tutti gli arabisti italiani sarebbero dovuti andar fieri ce ne passa, e parecchio!
      quanto al costa meno, non saprei: un biglietto dal Canada o dagli Stati Uniti non costa di più che un biglietto da Beirut, per esempio? che sia più facile, quello è sicuro..

  2. ciao
    non so chi abbia presentato l’occasione come “immancabile”… e “che tutti gli arabisti ne debbano essere fieri” mi sembra un po’ iperbolico…
    c’era già stata un’edizione del Salone del libro con la presenza di autori arabi, qualche anno fa… non è mica la prima volta. Un’occasione mancata lo è di certo, ma se ci si rivolge alle persone sbagliate… ecco fatta la frittata!!! Avrebbero dovuto coordinarsi con altre fiere del mondo arabo, es quella del Qatar, che quest’anno aveva come ospite l’Italia, per vedere come si fa e per portare autori da diversi paesi!! Cmq ripeto, il Salone del libro di Torino è solo una grande libreria dove vendere e stop! puro commercio di libri. Nessun investimento serio per la cultura.

  3. Ciao Chiara, molto interessanti – come sempre – le tue riflessioni. L’unica cosa che tengo a precisare, perché mi sono occupata di questo autore e di “mediare” il suo invito a Torino, riguarda la partecipazione di Karim Miské – il quale, anche per la propria storia personale, rifutando intellettualmente ogni categoria di appartenenza “araba”, è stato molto in dubbio sull’accettare l’invito. Capisco chequesto finisca per avvalorare la logica del tuo discorso sul fatto che di “arabo”, in questoSalone, ci sia ben poco. Ma avevo comunque piacere, conoscendo Miské e il suo pensiero, a segnalartelo. Io andrò ad ascoltarloinquell’occasione, se hai in programma di esserci anche tu, mi farebbe davvero piacere conoscerti anche di persona. Buon proseguimento e grazie per tutti gli spunti interessanti e arricchenti che sempre proponi, anche a noi “non specialisti”. Un caro saluto, Anna

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  4. Karim Franceschi è un italo-marocchino. Ha combattuto a Kobane ( Ain-Al Arab) in Siria. Ha scritto un libro bellissimo in cui ripercorre la sua infanzia in Marocco tra Casablanca e Marakesh, per poi trasferirsi in Italia e da lì partire per la Siria. Racconta della causa curda, araba, assira e del conflitto siriano con una poesia ed un veridicità unica. Magari la prossima volta leggilo prima di giudicare. Grazie.

      • Scusi non capisco cosa significa “l’idea in sé” ?? Non ha letto il libro, non conosce l’esperienza e le motivazioni di questa persona (mi riferisco al libro di Franceschi, che é molto bello e sincero nell’esposizione della propria esperienza) e giudica l’idea ?? Cosa significa esattamente…non comprendo la sua posizione !!

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