L’editoria francofona in Libano

Grafias, un bel magazine online che si occupa del mondo della letteratura e delle riviste internazionali, ha pubblicato un profilo dell’editoria francofona in Libano e ha intervistato una delle fondatrici di Tamyras, casa editrice libanese dedicata alla letteratura in francese.

L’articolo menziona gli editori francofoni attivi in Libano, e il ruolo del Salone del libro francofono, che si tiene ogni anno a Beirut, poche settimane prima di quello arabo.

Ma come ci è arrivato il francese in Libano?  Ebbene, non è stato “importato”  con il mandato assegnato dopo la prima guerra mondiale alla Francia sui territori della Grande Siria, che fino a poco prima avevano fatto parte dell’Impero Ottomano.

L’arrivo del francese, e dell’inglese, ha a che fare con la storia delle missioni – e delle scuole – gesuite e protestanti che gravitavano nell’area del Levante arabo da tempo, ed è una storia molto affascinante dal punto di vista linguistico che però fece una vittima: l’arabo.

Molto prima del mandato francese, le due principali istituzioni culturali e accademiche della regione, entrambe basate a Beirut, impartivano i propri corsi in francese, arabo e inglese: il Syrian Protestant College fu fondato dai biblisti di Boston nel 1866, e dal 1879 rese obbligatorio l’introduzione dell’inglese, scalzando l’arabo. L’Università Saint-Joseph fu invece fondata dai gesuiti francesi nel 1881 e sancì il definitivo successo del francese sull’inglese come lingua della c”ultura alta”. Entrambe le istituzioni segnarono il declino dell’arabo come lingua della cultura e della scienza.

Lo ricorda così lo storico libanese Samir Kassir nel suo libro Beirut. Storia di una città (Einaudi, 2009): “Grazie alla rapidità delle comunicazioni, l’attiva diplomazia della monarchia di Luglio poi quella del Secondo Impero rendevano quotidianamente tangibile l’influenza francese. […] In un modo o nell’altro, bisognava farsene una ragione; il francese aveva il «privilegio del favore popolare e delle amministrazioni», si legge in un carteggio del 1855. Era stata così impressa la svolta che avrebbe durevolmente contribuito all’immagine francofona – come non si diceva ancora – di Beirut e del Libano nel XX secolo, e che, per inciso, avrebbe indebolito la scelta a favore dell’inculturazione da parte dei gesuiti, molti dei quali non sentiranno più il bisogno di imparare l’arabo”.[1]

Kassir indaga anche la storia dell’introduzione iniziale dell’inglese, accanto al francese, e racconta di come il Syrian Protestan College, l’antenato dell’odierna American University of Beirut (AUB), aprì nel 1866 su impulso di un gruppo di biblisti americani originari di Boston, approdati in Medio Oriente attorno al 1820 con l’obiettivo di evangelizzare ed “educare” le popolazioni locali. Dopo numerose difficoltà e ostruzionismo da parte della congregazione di Boston, i biblisti riescono ad aprire diverse scuole per ragazzi e a fare il salto di qualità nel 1866. La futura AUB impartisce lezioni in arabo:

“Nel progetto accademico del Syrian Protestant College era stato specificato senza ambiguità che la lingua di insegnamento sarebbe stata l’arabo. La scelta era conforme allo spirito dei missionari, i quali man mano che arrivavano, avevano tutti imparato l’idioma del paese. Ma col 1869, si era notato un primo scarto da tale indirizzo in una dichiarazione del presidente Bliss il quale, notando l’assenza di testi di riferimento in questa lingua, esprimeva il timore che il corpo insegnante non fosse sufficiente ad assicurare i corsi avanzati del dipartimento letterario. […]. La questione della lingua di insegnamento fu posta esplicitamente in una riunione del Board of Trustees, a New York, nel 1875, alla presenza di Bliss e di David Dodge. In un primo tempo, fu presa la decisione di rendere l’inglese obbligatorio per tutti gli studenti. […]. L’arabo cessò di essere la lingua deputata all’insegnamento nell’anno accademico 1879-80”.[2]

Ritorno al presente con le parole di Tania Hadjithomas Mehanna di Tamyras, raccolte appunto da Grafias:

(Grafias) Ma anche gli editori che pubblicano libri in francese sono libanesi.

(Tamyras) Sì. In Libano coesistono tre culture principali: anglosassone, araba e francese. Amiamo molto tutt’e tre, ed è anche per questo che i libanesi sono così aperti: non è solo una questione di linguaggio, è piuttosto una questione di cultura. Cerchiamo di fare del nostro meglio per promuovere la lingua e la cultura francesi, e noi di Tamyras in particolare siamo interessati a dare maggiore potere alla lingua francese. Ci interessa molto aprirci al resto del mondo diffondendo la nostra letteratura e le tematiche che affrontiamo. Vogliamo guardare sempre più al Mediterraneo, perché crediamo che dovrebbe esistere una maggiore unione e una maggiore possibilità di dialogo tra i paesi dell’area mediterranea. Adesso quando si parla di Mediterraneo si pensa immediatamente ai migranti e ai loro corpi in mare, ma tutta quest’area riveste un interesse straordinario dal punto di vista storico, architettonico e culturale. Il nostro è un mare estremamente importante, è questo il nostro messaggio. E per questo portiamo i nostri autori a Parigi, Bruxelles, Bologna. Andiamo alle fiere del libro e quando non possiamo andarci facciamo in modo che i nostri libri siano comunque presenti. Per noi è fondamentale portare i nostri autori all’estero e vogliamo continuare a espanderci. Ogni libro è un messaggio. Ogni libro è una bellissima storia e io voglio che la conosca anche il resto del mondo. In Libano affrontiamo così tante situazioni difficili e conserviamo comunque un così grande entusiasmo! Abbiamo affrontato immigrazioni, invasioni, guerre civili… Molti libanesi sono cristiani, molti sono musulmani. Nel nostro paese coesistono diciotto comunità e, anche se abbiamo avuto quindici anni di guerra, viviamo insieme ancora oggi e ci rispettiamo reciprocamente. Gli stessi problemi che abbiamo affrontato noi ora riguardano tutto il mondo, ma il resto del mondo non sa come gestirli. Noi sì. Anche se in passato ci siamo fatti guerra e uccisi a vicenda, adesso sappiamo cosa vuol dire la tolleranza. Sicuramente sappiamo cosa vuol dire essere invasi. Nel nostro paese ci sono quattro milioni e mezzo di libanesi e allo stesso tempo un milione di rifugiati siriani. Prima di loro c’erano i palestinesi, gli armeni, gli iracheni. Insomma, buona parte dei libanesi sono rifugiati, e per noi non è un grosso problema, perché sappiamo come gestire la situazione. Per questo credo che abbiamo un grande messaggio da comunicare e penso che sia molto importante farlo adesso.

L’articolo e l’intervista completa sono consultabili a questo link!

[1] Kassir, S., Beirut. Storia di una città, Einaudi, Torino 2009, pp. 207-8.

[2] Op. cit., pp. 201-2.

[In copertina: Cattedrale maronita di San Giorgio a Beirut, 1890 ca. Fonte: Old Beirut]

3 commenti

  1. Interessante!
    Nota a parte: ammiro davvero quanto sei informata: considerando che in Italia le notizie sull’editoria araba di certo non abbondano, non so davvero come fai a tenerti così aggiornata!! Bravissima!
    Oltretutto i tuoi post sono sempre molto ben curati e ricchi di ottimi contenuti -> sei una blogger esemplare :-)

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