Etnografismo orientalista in traduzione: il caso della traduzione inglese di “Elogio dell’odio” di Khaled Khalifa

Questo articolo a firma di Ina Kosova è apparso in inglese su Arablit lo scorso 12 luglio. La traduzione in italiano per editoriaraba è a cura di Filippo Maria Ragusa, insieme al quale abbiamo pensato che sarebbe stato interessante per i lettori italiani sapere come all’estero (in questo caso: nel mondo anglofono) i romanzi arabi vengono trattati dagli editori.

Per nostra fortuna, la traduzione italiana di Elogio dell’odio (di Francesca Prevedello, edizioni Bompiani) non è stata alterata; la copertina inoltre è neutra, senza indicazioni di letture o visioni orientaliste, come invece è purtroppo accaduto alla versione inglese. Buona lettura*!

 Che cosa succede quando si elimina il finale di “Elogio dell’odio”, il romanzo di Khaled Khalifa?

 Nel suo intervento alla Duke University a febbraio 2016, Khaled Khalifa suggeriva che il suo editore non lo avesse informato di aver deciso di eliminare il quarto capitolo dalla traduzione inglese di Elogio dell’odio. La traduttrice, Leri Prince, aveva detto in una precedente intervista ad ArabLit: “Sapevo che l’editore voleva cambiare il finale, ma mi sono resa conto di quanto incidesse l’ultima revisione solo poco prima che il libro entrasse in produzione”.

Il romanzo di Khalifa, privato del suo originario capitolo conclusivo, è stato trasformato dall’editore e dai recensori in un esercizio di etnografismo orientalista, che invita il pubblico a “sbirciare all’interno” dell’harem. Riducendo il romanzo a un’autobiografia della donna musulmana, velata, costretta a una vita appartata; anacronizzandolo, facendolo diventare un effetto-verità dell’attuale guerra in Siria, il testo è stato derubato del suo merito letterario, e l’autore del prodotto della sua creatività. E anche la narratrice del romanzo, una volta privata di una qualsiasi conclusione, resta imprigionata in un opprimente elogio interno ed esterno dell’odio, il che rende questa traduzione particolarmente violenta.

Secondo Marilyn Booth, l’orientalismo, insieme all’esperienza materiale degli USA e della Gran Bretagna in Medio Oriente, avrebbe prodotto – almeno secondo gli editori – una domanda di testi che “rivelano”, che “portano alla luce” aspetti di quella che secondo il pubblico è una società velata e reclusa. Il risultato è quello che Booth ha chiamato “etnografismo orientalista”: un “modo di vedere e scrivere l’Altro che radica l’autorità in una narrativa scritta di esperienza personale”, e che segue “una lunga prassi orientalista che privilegia l’ “Islam come cornice in grado di spiegare tutti i fenomeni sociali e politici”. La finzione diventa autobiografia, il prodotto della creatività di un autore diventa etnografia.

A presentare questo “effetto verità” di com’è veramente la società “da quelle parti”, nel non-Occidente, in Oriente, secondo Booth, è “il volto femminile velato”, diventato “un cliché visivo noto a tutti per fare pubblicità ai libri in inglese sul Medio Oriente, siano tradotti o no”. Naturalmente non c’è niente di nuovo. Era stata l’egemonia delle idee occidentali sull’Oriente, secondo Edward Said, a permettere a Flaubert di rappresentare il modello di donna orientale nonostante il fatto che lei non avesse “mai parlato di se stessa… era lui a parlare per lei e a rappresentarla”.

E così, tornando alla traduzione inglese di Elogio dell’odio di Khalifa, concentrandoci prima di tutto sulla sovraccoperta, si rende subito evidente che la finzione si piega a funzionare come un effetto verità. Secondo le recensioni inglesi e americane, c’è una tendenza a omogeneizzare il testo, a trattarlo come letteratura “del Terzo Mondo”, letteratura “di guerra”, che mostra al pubblico occidentale com’è la vita “da quelle parti”. Ad esempio secondo il Daily Nation: “È un libro che vale la pena leggere adesso, se siete fra quelli che si rendono conto dell’inutilità delle guerre in Siria, Sudan del sud, Sudan, Libia, Repubblica democratica del Congo, Repubblica centrafricana, Afghanistan, Iraq e Somalia”. Questo tipo di lettura non menziona affatto la qualità estetica del testo e si concentra interamente sulla sua facoltà di “rivelare”.

Ma c’è anche bisogno di rendere il testo familiare, di addomesticarlo per il pubblico. Robert Worth, in The International Herald Tribune, scrive: “Il libro, una storia alla Balzac piena di amori e omicidi che spazia dall’Afghanistan allo Yemen e alla Siria, è stato immediatamente vietato”. L’opera letteraria di Khalifa è resa familiare paragonandola a Balzac, il canone letterario; questo paragone familiarizza per esclusione, rendendo Elogio dell’odio l’Altro rispetto al canone. Ma Worth lo rende anche esotico, insistendo sul fatto che il libro è stato vietato in Siria; ad onor del vero, la scritta “IL FAMOSO ROMANZO VIETATO IN SIRIA” fa bella mostra di sé sulla quarta di copertina dell’edizione hardcover americana. Il romanzo di Khalifa, ambientato ad Aleppo ai tempi dell’insurrezione dei Fratelli Musulmani contro il regime negli anni ’80, secondo Swiss News è “una potente reminiscenza della tragedia che si sta svolgendo in Medio Oriente”. Anche se Khalifa, in un’intervista con Robert Worth, ha insistito di “non essere minimamente interessato al realismo sociale, o alla finzione didattica”, e che “i suoi fini sono puramente estetici”, nessuna recensione – inclusa nelle note di copertina del romanzo o altrimenti citata qui – considera l’opera di Khalifa letteratura in sé e per sé.

Inoltre, in queste recensioni, così come nella foto di copertina dell’edizione statunitense, la narratrice è ingranata nel dualismo, nato nell’ambiente dell’orientalismo, tra Islam ed emancipazione femminile. Dalla copertina ci scrutano un paio di occhi scuri, incorniciati da tutti i lati da una abaya nera. La figura femminile solitaria guarda all’esterno, ma a sua volta invita a guardare all’interno, allettando lo sguardo del pubblico. Nella recensione di Swiss News la narratrice vive “una vita appartata dietro un velo”; mentre secondo Maya Jaggi, di The Guardian, “Seppure il suo astio in parte nasca dall’odio verso se stessa, il romanzo allude a una tolleranza che discende dall’accettazione di sé – e che ha al centro la libertà della donna”. Ecco la ben nota associazione della donna musulmana velata e “appartata” con la questione della libertà/emancipazione/liberazione della donna.

Il traduttore e professore Adam Talib, nella sua lezione “Tradurre per i fanatici”, nota: “Come sa chi legge la letteratura araba moderna… la gente esce a cena, fa sesso, beve, si droga”. Ma se “traducete il personaggio, una professionista di città istruita… il recensore finisce per dire ‘quanto è irrealistico questo ritratto delle donne arabe’”. Il testo di Khalifa è stato reso familiare, e quindi realistico, per editori e recensori inglesi e americani: la femmina velata, fondamentalista, intrappolata in un mondo di violenza e settarismo, allude a un desiderio di essere liberata. Ma questa trappola funziona perché si è tagliato via il quarto capitolo originario del romanzo.

Questo romanzo è permeato da un senso di claustrofobia, di vita murata. La casa di Aleppo, un tempo gloriosa, ora decadente, è soffocata dal mobilio pesante, dalle porte chiuse a chiave, e dai suoi ricordi di rimpianto, mancanza e compianto. Mentre inizia l’assedio di Aleppo, questo senso di trovarsi in trappola è potenziato dagli onnipresenti pensieri di morte. Marwa, affascinata dalle farfalle imbalsamate, dalla “vista delle loro ali fissate e stirate nella resa”, decora le pareti con “scatole di legno preparate appositamente, a forma di bare”. L’atmosfera fuori dalle mura di casa è “opprimente, satura della paura di un caos senza nome”, mentre all’interno c’è “decomposizione”, bocche piene di “marcio”, donne che ricordano “mummie”. La casa è una bara, un vaso di formalina, una tomba; letteralmente una prigione dove Marwa è incatenata al letto per le caviglie. Nella prigione delle Mukhabarat, circondata da ogni lato dal sudiciume, dai lamenti delle donne torturate, dalla perversione dei secondini, la narratrice nota: “Cercavamo tutte qualcosa che ci potesse risparmiare il senso che il tempo ci opprimesse, che le nostre vite fossero intrappolate in un punto morto ineluttabile”. Dopo sette anni di carcere, dopo essere rimasta intrappolata in un perpetuo, interminabile ciclo di elogio dell’odio, la traduzione inglese si conclude dentro la prigione delle Mukhabarat con queste righe:

Non aprii la bocca. Quando lui si alzò e mi passò il foglio che autorizzava il mio rilascio, porse la mano verso la mia per stringermela, così io mi allungai per trasferire il veleno del mio odio. Strinsi la mano del mio nemico e lo guardai negli occhi, e seppi che era morto.

Il romanzo si conclude con la stessa ripetizione repressiva che si trova nel resto della narrativa: morte, prigionia, odio. Questa conclusione lascia senza risposta, secondo la professoressa Anne Marie McManus, una domanda cruciale posta nel quarto capitolo: “Perché, nel 2006, Khalifa – come artista – trova necessario descrivere questa mancanza di coesione tra la sua narratrice, libera dopo anni di torture per mano dello Stato, e la sua società?”

Nel quarto capitolo dell’originale arabo, le interazioni della narratrice sono macchiate da un certo disagio, una certa sensazione di non trovarsi al proprio posto; in realtà, ora la narratrice interpreta un ruolo che percepisce come straniero. Secondo la narratrice, la vecchia casa di Aleppo è macabra, con Maryam e Radwan che aleggiano nei corridoi, ossessionati dalla morte e dal desiderio di morire. “Maryam spiegò al carpentiere la sua strana, patetica richiesta con una certa difficoltà. ‘Vorrei una bara’, gli disse. ‘Una bara in cui posso dormire’”. Né la narratrice può sfuggire questa prigionia all’Università. Descrivendo la sua amica Safia e il suo amante, il dottor Hani, la narratrice nota: “Lui chiude la porta a chiave, e la stende su un lenzuolo sul pavimento dell’obitorio, dopo aver aperto le fredde celle di metallo, così che i cadaveri possano vederli fare l’amore per terra”. E’ una perversione dell’amore, che va in scena davanti a una platea di cadaveri in un obitorio. Perfino l’incontro della narratrice con Safaa, la sua confidente di un tempo, ha qualcosa di raccapricciante, di straniero. Quando Safaa torna dall’Afghanistan, vestita con un burka, mentre canta le lodi della Shari’a dei Talebani, mentre descrive la casa d’argilla dove vive adesso, le descrizioni della narratrice sono introdotte da una ripetizione della parola “strano”. Questo riflette una frattura profonda tra Safaa, ora divenuta una fervida credente, e la narratrice, che la famiglia ancora chiama la mujahida.

Ma c’è un certo senso di luce che si insinua tra le pagine imbalsamate, pietrificate di questa storia, quando la narratrice arriva a Londra, dove lavora come medico. Si descrive mentre cammina per le strade di Londra, “libera dai miei vestiti neri che per lunghi anni avevano pesato così tanto”, mentre beve, mentre si sposta da un bar all’altro; “la sua “noncuranza” le dà “una sensazione di potere”. Ma Khalifa non ci sta apparecchiando l’ossessione orientalista della donna musulmana svelata, sessualmente liberata. Se così fosse, perché mai tagliare il quarto capitolo? Il romanzo originale si conclude con le righe seguenti: “Sola, tornai al centro di Londra. Calò il buio e ancora sentivo il torpore dei miei piedi e in tutto il corpo. Sola, cerco immagini dei morti per poterle scambiare con altri, come una brutta lucertola vergine”. Qui, ancora una volta, nonostante la distanza tra la narratrice e la sua società, c’è la ripetizione della repressione e della morte, i temi che hanno aleggiato su tutto il romanzo.

Ma se l’editore ha potuto trovare superfluo il quarto capitolo, è stato ignorando del tutto ciò che Khalifa riesce a ottenere in quel capitolo. Non è un memoriale di com’è la vita di una donna in Siria, la vita di una donna nell’Islam, o la vita di una donna in un qualche paese del Terzo Mondo “da quelle parti”. Questa non è la lotta fra il fondamentalismo islamico e l’emancipazione femminile; non è un desiderio di svelare. Lo “svelamento”, se lo vogliamo chiamare così, è significativo solo in quanto non cambia niente. L’immaginario ricorrente di morte e decomposizione, dalla Siria a Londra, è ciò che McManus definisce la spinta di Khalifa perché i lettori siriani “facciano i conti con la realtà che la loro società è stata divisa”. C’è una visione di emancipazione, espressa in questo romanzo, ma non è quella che l’immagine di copertina vorrebbe farvi credere. Questa visione di emancipazione esige che una comunità venga a patti con il suo trauma, che intraprenda il processo del lutto.

Ma a dispetto di tutto questo, a dispetto del fatto che l’opera di Khalifa ritrae nel dettaglio i massacri e i settarismi della Siria anni ’80, esplorando l’emergere e il riprodursi di una logica dell’dio, questo libro, tradotto usandogli violenza, è stato ridotto a un altro dei tanti volti di donna velati.

* (NB – le traduzioni dei passi del romanzo sono state eseguite dal testo inglese tradotto qui, non sono tratte dalla traduzione italiana del romanzo)

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