“Elogio dell’odio” di Khaled Khalifa: un libro dalla parte dell’uomo

Elogio dell’odio (Bompiani, 2011) è il romanzo che ha fatto conoscere in Italia lo scrittore siriano Khaled Khalifa, che da quando è iniziata la guerra civile in Siria è in prima linea per far conoscere al mondo quanto sta accadendo nel suo paese. Forse vi ricorderete quanto scriveva solo un anno fa, nella sua lettera, un accorato appello, aperta agli scrittori di tutto il mondo: “spero di avervi esortati a mostrare la vostra solidarietà al mio popolo con i mezzi che riterrete più opportuni. So che la scrittura è impotente e nuda di fronte al frastuono dei cannoni, dei carri armati e dei missili russi che bombardano città e civili inermi, ma non mi va che anche il vostro silenzio sia complice dello sterminio del mio popolo”.

La recensione è a firma di Annamaria Bianco – che qui ringrazio per avermela voluta proporre! – ma, come sempre, la sezione commenti è a disposizione di chiunque abbia letto il libro e voglia condividere con noi la sua opinione. Buona lettura!

di Annamaria Bianco

elogio odio copertL’odio come risposta all’odio, in un mondo dove la legge universale non è più quella dell’amore: la Siria degli anni ’80, dilaniata dal conflitto fra l’islamismo radicale e il dispotismo militare; la città di Aleppo; la famiglia dell’anonima narratrice, protagonista di un romanzo ancora tremendamente attuale. Purtroppo. Un libro che lascia addosso quella sensazione da “resto di niente” e un vuoto, e un’amarezza, così intimi da turbare nel profondo. O, almeno, per quanto riguarda la mia personalissima esperienza.

Scritto con l’inchiostro della poesia, con un linguaggio allegorico tipicamente siriano, che lascia spazio alle metafore che scivolano dalla bocca della narratrice, mentre racconta gli avvenimenti della sua vita con un lirismo sempre più commovente con l’incalzare del ritmo della narrazione, fino a raggiungere il culmine con il drammatico epilogo. Gli stessi titoli dei capitoli giocano sulla creazione costante di sinestesie, mentre fra le pagine aleggiano onnipresenti profumi, come quelli creati da Radwan, il servitore cieco della famiglia; un personaggio secondario, ma splendido con tutte le sue peculiarità, come tutte le altre figure che si fanno spazio all’interno di quello che potrebbe essere considerato un vero e proprio romanzo corale. Al suo interno, un mescolarsi di ricordi, che si intrecciano come visioni, tra il sonno e la veglia, il desiderio di fuga dal mondo, la solitudine, la ricerca dell’autoaffermazione nella negazione del corpo, la sessualità proibita, l’amore che porta a imbalsamare farfalle. Le storie dei singoli, le loro passioni e ossessioni, si svelano pian piano, sullo sfondo degli scontri civili.

Ci sono i tre zii, Salim il sufi, Bakr che lancia il jihad contro il regime trascinando l’intera famiglia nella guerra, e Omar, che si dedica alla malavita; poi ci sono le tre zie, Mariam, l’anziana vergine che vigila sulla moralità delle altre donne della casa e racconta storie sul passato glorioso della loro famiglia, Safa’, in costante conflitto con lei, e Marwa, che trova la felicità tra le braccia di un ufficiale. In effetti, a parlare e ad agire sono soprattutto le donne, alle quali è lasciato molto spazio e attraverso le quali, anzi, viene raccontata ogni vicenda; donne di ogni età, di ogni status sociale e ideologia. Un espediente per non rappresentare i fatti nella loro schiacciante verità storica, forse, o forse per mostrare quanto l’odio possa corrompere anche quella che dovrebbe essere l’incarnazione vivente dell’amore.

In entrambi i casi, l’impatto è stato vincente: Khaled Khalifa è riuscito a risvegliare le coscienze di un popolo che sembrava aver archiviato nel dimenticatoio “Gli Avvenimenti” di quegli anni; questa la litote con la quale i siriani parlavano di un passato che ha fatto 250.000 morti. Neppure la censura ha potuto nulla contro la potenza del romanzo, che si è imposto sulla scena internazionale dopo la nomination al “Premio internazionale del Romanzo Arabo” e del quale sono state fatte numerose traduzioni in diverse lingue.

Un libro che consiglio davvero di leggere, perché non fa politica. L’unica parte dalla quale è schierato è quella degli esseri umani e della vita.

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*Khaled Khalifa è nato ad Aleppo nel 1964. Lì ha frequentato la facoltà di legge e, dopo la laurea, si è dedicato alla letteratura, lavorando come sceneggiatore per il cinema e la televisione, per poi fondare la rivista culturale “Aleph”, in seguito censurata dal governo siriano. “Elogio dell’odio” (Madih al-Karahiya), nominato nel 2008 per il Premio internazionale del Romanzo Arabo, è il suo terzo libro. In Italia è edito da Bompiani (2011). Attualmente, lavora su un quarto romanzo, ma va avanti a rilento essendo stato vittima, nel maggio scorso, di una frattura della mano da parte delle autorità.

Da sempre fortemente coinvolto nelle vicende del suo paese, qualche tempo fa ha indirizzato agli scrittori di tutto il mondo una lettera aperta sulla rivoluzione siriana.

24 commenti

  1. ciao, un commento a caldo… sì un bel libro, ma che purtroppo ho impiegato troppo a leggere, e che invece andava letto tutto d’un fiato, quindi me n’è rimasto un ricordo frammentario. Sulla lingua però… ho qualche dubbio. L’ho suggerito a un’amica siriana (che non lo conosceva) proprio quest’estate, mentre infuriava la guerra civile (che purtroppo non si è ancora fermata). Dopodiché il suo commento è stato: bella storia ma è scritto male. Io l’avevo letto in italiano, quindi mi sono procurata l’edizione in arabo e devo dire che concordo abbastanza con lei. Devo dire che la traduttrice, Francesca Prevedello (che non nominate, e mi dispiace. Cara blogger fai un lavoro egregio, ma questa è un po’ una tua mancanza, cerca di ricordarti dei nomi dei traduttori), ha fatto un ottimo lavoro e mi piacerebbe sentire il suo parere sulla lingua di Khalifa. Comunque, leggendo questa recensione mi è venuta voglia di riprenderlo in mano in arabo, forse sono io che non ho colto certe “finezze”. Conosco meglio (e apprezzo) la letteratura classica, quindi il mio parere è solo quello di una lettrice e non di un’esperta di letteratura contemporanea..
    Stefania

    • Grazie Stefania, come dici anche tu, sarebbe interessante avere il parere della traduttrice.
      Quanto alla mia dimenticanza (non chiamiamola mancanza!), stiamo lavorando su una piccola idea per dare voce ai traduttori arabisti italiani, ne saprete di più tra poco!

  2. Anch’io ho letto il romanzo in arabo (nel lontano 2006 appena uscito e lo sto scorrendo in questo momento), e contrariamente a Stefania trovo che sia magistralmente composto sia a livello di storia che di lingua. La lingua è uno dei suoi punti di forza: moderna, attuale, aperta alle penetrazioni linguistiche da altri idiomi , ci sono parole in francese, inglese, italiano, curdo (non dimentichiamo che Khalid Khalifa appartiene alla minoranza curda in Siria) funzionale alla narrazione, alla psiche dei personaggi e agli spostamenti che Khalifa effettua nel tempo (fra presente, laddove il presente sono gli anni 80, e passato) e nello spazio (Aleppo, Londra, Parigi, Kandahar)
    Colpisce la mancanza dei dialoghi nel romanzo, di fatto i personaggi non si parlano, si attraversano senza capirsi, senza guardarsi, castrati ed incastrati nel loro fallimento, nella loro illusione.
    E’ un magnifico ritratto non solo di Aleppo (forse è il primo romanzo siriano che racconta così egregiamente Aleppo) ma di tutta una generazione che in buona o in malafede pensava di fissare le lancette del loro orologio psichico e fisico (cioè storico) rifugiandosi nell’odio e nell’assassinio, rispolverando antichi miti e vecchie ricette (Al Khilafa).
    E’ un romanzo sì al femminile, in quanto sono le donne a tessere le fila del racconto, ma in verità è un romanzo sull’impossibilità di realizzazione delle donne all’interno di una società patriarca e machista che seminando l’odio nel cuore delle donne, lo semina nei cuori di tutta la società.
    Mi viene in mente il libro dell’antropologa e psicologa marocchina Rita El Khayat “Il complesso di Medea, le madri nel mediterraneo”, come mi viene in mente una eccellente analisi di un psicologo egiziano sul legame fra le dittature e il terrorismo in relazione al rapporto degli uomini con le donne (madri, sorelle, figlie e amanti che siano), la sintesi è che una società che abortisce il sogni delle donne di amare e di essere amate (l’amore include il rispetto, la stima, la fiducia….) raccoglie uomini frustrati, paranoici, e psicologicamente instabili, ed è attenzione non è solo una realtà araba.
    In fine Khalifa è riuscito a parlare del fascino dell’oriente senza cadere nell’orientalismo (anche merito della lingua) è scusate se è poco.

    • ciao,
      grazie per la tua risposta, questo mi sollecita ancor più a riprendere in mano il libro in arabo e a rileggerlo alla luce di quello che dici.
      Conosco bene Rita El Khayyat (e sono una sua fan) :-) credo che abbia scritto il miglior testo in assoluto su Donne nel mondo arabo (2002: La donna nel mondo arabo, Jaca Book (EDM), Milano), purtroppo esaurito, e che andrebbe non solo ristampato, ma in Francia dovrebbe essere uscita la nuova edizione aggiornata e andrebbe tradotta quella. Secondo me El Khayyat è una studiosa molto più “onesta” e rigorosa della tanto sbandierata Mernissi…

      • Stefania per fortuna quel libro ce l’ho nella edizione che dici essere esaurita.
        Non vorrei essere ingiusto né con El Khayat né con El Mernissi (avendole conosciute tutte i due e sapendo quanta passione le animi) ma comunque i lavoro dell’una non esclude il lavoro dell’altra anche se spesso si pestano i piedi (ma questa è un’altra storia, sappiamo quanto piace alle donne e non solo fare le prime donne) ti segnalo un altro libro di El Khayat molto divertente. “Il fastoso Marocco dei costumi e delle tradizioni” che è un viaggio nelle tradizioni , usi e costumi del Marocco.
        Potrebbe essere una lettura interessante anche per te Dottoressa Comito, casomai ti venissi voglia di farti un giro da quelli parte ;-)

      • ciao Rabii, i libri di Rita al-Khayyat pubblicati in Italia li ho letti tutti. Hai ragione nel dire che entrambe sono “appassionate”, la Mernissi ha scritto un testo importante (che ovviamente non è mai stato pubblicato in Italia, anche perché lei lo ha in parte, credo, disconosciuto) in inglese (credo fosse la sua tesi di dottorato) sulla questione donna nel mondo arabo in cui osava parlare anche del mondo preislamico… poi si è un po’ adagiata ed è diventata anche un po’ superficiale (è una sociologa, quindi conosce bene la realtà del mondo arabo… ma preferisce scrivere nel tono dei feuilleton), cmq è bene che esista e so che in Marocco fa un egregio lavoro nel sociale.
        Rita invece è una psichiatra che ha lavorato nei manicomi, quindi ha visto tanta sofferenza… secondo me, quando scrive è più vera, tutto qui.

    • Vedo che sai il fatto tuo Stefania.
      Comunque si ne convengo con te, gli ultimi lavori di Mernessi sono un po’ sotto tono, e El Kheyyat è decisamente più di stature.
      Comunque se non hai il libro di Khalifa in arabo te lo posso mandare via mail in pdf :-)

  3. L’appello di Khalifa però ha trovato un pubblico sordo, qui da noi come altrove da scrittori e intellettuali non è stato preso un minimo impegno (http://ilmondodiannibale.globalist.it/Detail_News_Display?ID=43683 questo mi pare insufficiente, pochi nomi e poca risonanza) per mostrare solidarietà alle siriane e ai siriani, ho la sensazione che non si rendano nemmeno conto di cosa stiamo perdendo… E’ un appello che andrebbe rilanciato, dobbiamo esigere che il mondo della cultura si interessi alla Siria e esprima fortemente la propria solidarietà.
    Ho letto L’elogio dell’odio in traduzione italiana nel 2011. Forse dovrei rileggerlo anch’io perché la prima lettura non è riuscita a coinvolgermi e ho seguito la storia a fatica, l’ho trovata troppo carica e alla fine molte cose mi sono sembrate lasciate in sospeso. Secondo me, più che un lavoro sulla lingua Khalifa avrebbe dovuto curare meglio la struttura del romanzo, magari operando qualche taglio… un po’ di editing (cosa che ad esempio è stata fatta sull’edizione francese di Actes Sud). Ma dovrei rileggere il romanzo per dare un giudizio più sensato. La lingua di Khalifa non mi è parsa particolarmente elaborata, “standard” direi. Sono d’accordo con Stefania sul merito di Francesca Prevedello, che ha fatto un ottimo lavoro come traduttrice rendendo il romanzo in un italiano agile e scorrevole (cosa non scontata quando si parla di traduzioni italiane, per cui è veramente un bene non dimenticare i traduttori nelle recensioni e anzi fornire sempre una nota critica in merito).
    Tra gli scrittori di Aleppo a me piace molto Nihad Sirees, oltre al “Silenzio e il clamore” (al-Samt wa al-sakhab), uscito in arabo nel 2004, romanzo che ha il sapore della satira politica e dove Aleppo non è esplicitamente citata sebbene la si riconosca, ha scritto diversi romanzi che rendono perfettamente l’atmosfera particolare della città…

    • Giacomo come fai a ragionare sulla lingua di Khalifa se l’hai letto in italiano!?
      Quando si traduce fondamentalmente si riscrive, Ogni lingua ha una sua sintassi, le sue combinazioni, le sue metafore, e per quanto le traduzioni possono riportare il corpo di un romanzo in un altra lingua, lo spirito che è intrinsecamente legato alla lingua in cui è stato scritto, non sempre si riesce a trasportare. Perciò ho sempre invitato coloro che possono leggere in arabo e che hanno la pretesa di occuparsi di letteratura araba, di affiancare la lettura dei romanzi nella versione tradotta, alla lettura dell’originale in arabo.
      Tradurre non è scrive. E se si deve ragionare sulla Lingua di una opera va fatto basandosi sulla Lingua in cui è stata scritta, non sulla sua traduzione.

      • Non l’ho detto ma in realtà un’occhiata all’originale l’avevo data prima che uscisse in italiano e la prima impressione, non approfondita ma è sempre un impressione, è che fosse un arabo letterario normale, con le sue normali caratteristiche siriane… non mi è parso scritto male, semplicemente di primo acchito non ho avvertito di trovarmi di fronte a una lingua particolarmente complessa o originale. Vero è che per dare un giudizio fondato al cento per cento dovrei leggermi l’arabo da cima a fondo.
        Comunque se non tutto passa in traduzione neppure tutto si perde. Le differenze di stile tra gli scrittori riescono ad emergere quando sono ben tradotti. Chi non si è accorto ad esempio dello stile di Hoda Barakat o Elias Khuri anche leggendo solo la versione italiana?

    • Giacomo, concordo con te sul fatto che L’Elogio dell’odio andassse un po’ sfrondato, ma si sa che gli editor nel mondo arabo sono pressoché inesistenti, spesso infatti i romanzi vengono rivisti solo in fase di traduzione. Molte volte mi è capitato di leggere che la traduzione italiana fosse fatta sull’edizione inglese o francese, proprio per questo. E se si leggono i romanzi in arabo spesso nella traduzione italiana molti passi sono espunti.. chissà come mai e a volte ci sono anche periodi completamente riscritti.
      Perché non proponi di tradurre il romanzo di Nihad Siris?

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